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Il diritto di resistenza

Lo Specchio Sassone (in tedesco Sachsenspiegel) è la più rilevante raccolta normativa del Medioevo tedesco.

Esso è un codice descrittivo, cioè registra la pratica giuridica corrente senza imporre nuove leggi.

Il nome specchio sassone aveva un significato allegorico, infatti, come si può osservare il proprio volto in uno specchio, così i sassoni avrebbero potuto vedere ciò che era giusto e lecito e ciò che non lo era in uno specchio.

Questo diritto compare in tale testo in una norma riportata agli inizi del XIII secolo.

Questa norma recita «L'uomo può resistere al proprio re e al proprio giudice quando questo agisce contro il diritto, e financo aiutare a fargli guerra. […] Con ciò egli viola il giuramento di fedeltà»

Secondo autorevoli costituzionalisti, il riconoscimento giuridico del diritto di resistenza risale alla Bolla d’oro di Andrè II del 1222 ed al Capitolo 61 della Magna Charta inglese del 1225.

San Tommaso e John Locke furono quelli che lo teorizzarono, le rivoluzioni tra cui quella francese lo esercitarono come diritto di ribellione e con questo diritto i regimi totalitari furono abbattuti.

Per Locke, in contrapposizione ad Hobbes, l’uomo non cede al corpo politico tutti i suoi diritti, ma solo quello di farsi giustizia da solo. Lo Stato perciò non negherà i diritti naturali (libertà, vita, uguaglianza, proprietà).

Quindi è una resistenza fondata su un’idea di diritto naturale nella sua accezione tendenzialmente connessa ad un diritto divino, ovvero collegata a forme di contrattualismo costituzionale che determinano l’ancoraggio del potere costituito al concetto di sovranità popolare.

Orbene, non vi è identità tra rivoluzione e resistenza.

La rivoluzione non aspira a una qualificazione all’interno delle categorie giuridiche dell’ordinamento valido ed effettivi che essa mira a rovesciare, mentre la resistenza si pone l’obiettivo di conservare un ordinamento che appare minacciato o si rivolge contro una violazione di tale ordinamento già verificatasi – per reintegrarlo nella struttura delineata dai suoi principi fondamentali -, ma dopo che sia stato esperito invano ogni ulteriore rimedio predisposto dallo stesso ordinamento

Il diritto –dovere di resistenza è riconosciuto espressamente nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 5 luglio 1776, così anche la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 lo afferma all’art.2, poi indicato in modo più esplicito, nella Costituzione francese del 1793 (che però non è mai entrata in vigore) agli artt.33 e 35.

Vestito nelle forme più strane, come diritto di sciopero fu utilizzato dalle classi sociali per opporsi a comportamenti reazionari da parte della classe dirigente o del governo, così anche è riconducibile ad esso la disobbedienza di Gandhi.

Nonostante ciò nel mondo molte costituzioni lo disciplinano tra i diritti fondamentali: 37 sono i Paesi, ma la prima fu la Germania ad adottarlo.

Per Kant tale diritto non poteva essere ricompreso nei diritti innati dell'uomo perché il popolo ha sì dei diritti nei confronti dello Stato, ma non di tipo coattivo, ovvero non vincolanti.

Nella Costituzione francese il diritto alla ribellione è sancito come il diritto di "resistere all’oppressione", mentre la Grundgesetz tedesca riconosce ai suoi cittadini il diritto di resistere contro i tentativi di abolizione della Carta costituzionale.

Per quanto riguarda l'Italia una delle prime bozze della Costituzione della Repubblica Italiana, sottoposta al vaglio dell'Assemblea Costituente, nell'articolo 50 (che poi sarebbe diventato l'attuale articolo 54) riportava nel secondo comma «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino», ma in sede di discussione in Assemblea si seguì l'indicazione di Mortati il quale intervenendo sottolineò l'oggettiva difficoltà nel riuscire a distinguere la legittima ribellione da quella illegittima, che convinse l'Assemblea a espungere tale comma dal testo. Mortati, nella sua dichiarazione di voto afferma: “Non è al principio che ci opponiamo, ma all’inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico e mancano nel congegno costituzionale i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima” .

A Mortati rispose sul punto, Tupini il quale dichiarò che “Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza”.

Come si evince dalle parole di Tupini, dunque, il diritto di resistenza venne comunque considerato come un diritto efficace entro l’ordinamento giuridico, addirittura assoggettabile al potere giurisdizionale.

Sul piano religioso il Cristianesimo lo utilizzò come mezzo di lotta finché l'Imperatore Costantino nel 313 d.c. non la dichiarò religione di Stato. L'esercizio era ritenuto legittimo poiché l’obbedienza a Dio viene prima di quella alle leggi dello Stato (Obedire oportet Deo, magis quam hominibus- Bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini Atti 5,9-)

Secondo autorevoli costituzionalisti il diritto di resistenza trova la sua legittimazione nel principio della “sovranità popolare” , sancito nell’art. 1 della nostra Costituzione, che quindi rappresenta la legittimazione all’intero Ordinamento giuridico.

La “sovranità”, peraltro, è attribuita ad ogni singolo cittadino, come membro del popolo, e non solo al popolo nel suo insieme.

Nel nostro Ordinamento giuridico, comunque, ci sono varie norme che stabiliscono la legittimità della resistenza individuale ( cioè del singolo individuo) di fronte al provvedimento illegittimo (anche se apparentemente legittimo) dell’Autorità e/ o al comportamento arbitrario di un pubblico funzionario. Ricordo, l’art. 4 del DLL n. 288 del 1944, che legittima la resistenza attiva (non solo passiva) ad un pubblico ufficiale o ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, qualora queste funzioni pubbliche siano esercitate in modo arbitrario, ma anche nei codici e regolamenti militari, così

anche l’art.51 del Codice penale che esclude la punibilità dei fatti compiuti nello “esercizio di un dovere” o nello “adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità” e l’art.650 del c.p., che legittima la disobbedienza contro provvedimenti non “legalmente dati” dall’Autorità, cioè emanati arbitrariamente e quindi illegittimi.

La resistenza collettiva si esercita attraverso l’esercizio dei diritti di libertà, previsti e tutelati espressamente dalla nostra Costituzione, come il diritto di manifestazione del pensiero (art. 21) ed il diritto di sciopero (art.40), anche politico.

Sicché la sovranità è esercitata in modo diretto attraverso i fondamentali diritti di libertà, garantiti espressamente dalla Costituzione, ed in modo indiretto attraverso lo Stato- apparato (la Pubblica Amministrazione), la cui attività non può comunque essere in contrasto con la sovranità popolare.

Pertanto, quando lo Stato esprime una volontà contraria a quella del popolo, spetta a questo (e quindi ai cittadini, singolarmente o collettivamente) riappropriarsi della sovranità per ripristinare la legalità ( ad esempio difendere le Istituzioni democratiche).

In pratica, quando il Governo, pur instauratosi legalmente (con le elezioni) agisce al di fuori della propria legittimazione (che deriva dalla sovranità popolare espressa con le elezioni), i cittadini, che sono gli effettivi titolari della sovranità possono, anzi devono, attivarsi (appunto con la resistenza) per ripristinare la legalità violata.

Se non fosse consentito ai cittadini di ricorrere alla resistenza, quale estremo rimedio per ripristinare la legalità violata, il principio della sovranità popolare, sarebbe di fatto privo di significato.

Pertanto, la resistenza dei cittadini è uno strumento fondamentale, seppure eccezionale, di garanzia dell’Ordinamento Costituzionale, anche se non è espressamente stabilita.

Naturalmente il diritto di resistenza, deve essere esercitato senza violenza, è l'antidoto al positivismo giuridico, ed a differenza di quanto sostenuto da Kant non è un diritto ma è il diritto sociale che legittima la disobbedienza civile costituente, che trova la sua fonte nel diritto naturale e che non si contrappone all'esercizio di un dovere, ma ad un potere esercitato, ancorché legittimamente, che è corrotto da un nuovo assetto assiologico, presente nella dinamica sociale, che lo legittima prima eticamente e poi giuridicamente.

Chi frequenta le aule di giustizia alle spalle del giudice è riportato quanto sancito dall'art. 101 della Cost. cioè che la giustizia è amministrata nel nome del popolo, ma non è “esercitata” in suo nome.

Sicché il giudice, non decide secondo ciò che vuole il popolo, perché in tale enunciato si consacra il dovere dei giudici di ubbidire alla legge (e non al legislatore) e di disubbidire a qualunque altra fonte di potere, anche al potere giudiziario nella sua espressione "correntista" di tale potere, il che crea una vera e propria “devianza”, trattandosi di un potere non autopoietico, cioè che si genera ed alimenta da se stesso.

Quindi l'indipendenza tanto invocata, si esprime orizzontalmente nei confronti degli altri poteri (legislativo ed esecutivo) ma non verticalmente nei confronti della sovranità popolare, che deriva anch’essa dalla Costituzione, che in una democrazia, si muove dalla base verso il vertice della piramide della legittimità del potere, qualunque esso sia.

Quindi, un giudice prima di rispondere alla propria coscienza, risponde alla coscienza del popolo, di tutto il popolo, senza considerare, la divisione tra maggioranza e minoranza, poiché l'indipendenza, non può essere orientata tra un più o un meno, ma attuando il principio di uguaglianza, con il compito di garantire l’effettività di una vita democratica liberale, attraverso il corretto uso di tale potere.

Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.

Ma tutto ciò sarebbe in contraddizione con quanto teorizzato, cioè di un diritto di resistenza che ha la sua fonte di legittimazione nella Costituzione, all'interno di essa e non all'esterno di essa.

Cambia, allora, l’equazione posta a base del diritto di resistenza: la fonte non sarebbe la sovranità popolare, bensì i diritti inviolabili.

E, quindi, il bene giuridico tutelato da tale diritto potrebbe non essere solo l’ordinamento giuridico oggettivo, ma soprattutto i diritti dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione stessa.

Ritorna l’efficacia del diritto di resistenza dentro e per l’ordinamento, mai fuori e contro di esso.

Ritorna il concetto attuale e moderno, di cittadinanza attiva: è la presenza del cittadino, la sua vigile virtù civica, il suo consenso ma anche la sua critica a dar nuova linfa vitale alla democrazia.

E' lo stesso Mortati che ritornando a trattare l'argomento afferma che la resistenza trova la sua fonte in sé stessa, non “nella sovranità popolare, ma nei diritti inviolabili, ancora nella sua riuscita nel porsi come diritto vivente”.

La sua fonte è sempre comunque a) il diritto o naturale positivizzato, vale a dire i diritti inalienabili, o b) il diritto espressamente positivo.

In questa prospettiva, però, il bene protetto dal diritto di resistenza non è più l’ordinamento giuridico oggettivo né i diritti garantiti dalla Costituzione, bensì la sovranità popolare nella sua dimensione dinamica, come prassi che riconosce il dissenso come un fattore di legittimazione sociale.

Ergo, resistiamo!

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